Formaggio a New York

Adoro il formaggio. Ricordo che da studente di dottorato nei primi anni ‘90 a Berkeley per riuscire a trovare dei buoni formagg dovevo recarmi in un negozio specializzato in prodotti gastronomici di tutto il mondo, e così riuscivo a comprare (e non a buon mercato) un buon pezzo di Parmigiano con cui tirare avanti per qualche settimana. Negli USA i formaggi sono sempre stati fortemente sconsigliati da molti medici e nutrizionisti, per il loro contenuto di grassi saturi (mentre guai a parlare male del consumo eccessivo di carne ad esempio: paradossi del nutrizionismo strabico…)
Con gli anni però le cose sono un po’ cambiate. I formaggi sono sempre sconsigliati e addirittura per alcuni formaggi a latte crudo è vietata l’importazione per paura di possibili conseguenze sanitarie, ma è comunque cresciuto il numero di persone che apprezzano questa multiforme categoria di derivati del latte. Non mi ha stupito quindi, nella miarecente fugace visita a New York di cui vi ho già accennato, scoprire in vari negozi una gran varietà di formaggi.
Entriamo ad esempio in un market della catena Fairway,
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Il banco dei formaggi è il primo che incontriamo dopo l’entrata (cliccate per ingrandire e leggere i cartellini)
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Potete vedere del pecorino toscano, del pecorino “de” fossa (sic :-) ) ma anche formaggi spagnoli e francesi.
Il Parmigiano ha uno stand tutto suo
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ma lì a fianco troviamo anche del “domestic parmesan” (a occhio stagionato pochissimo quindi niente a che vedere con the real thing!)
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Usciamo da Fairway ed entriamo da Zabar’s (vi ricordate? ero andato a far colazione). Anche qui i formaggi ci accolgono subito (clic per ingrandire)
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Mi sembra decisamente meglio fornito del precedente: troviamo asiago, taleggio, provolone, gorgonzola, fiore sardo e tante altre cose. “Vento d’estate (Veneto)” però sinceramente non so che cosa sia. Qualcuno lo conosce? EDIT: Andrea nei commenti mi informa che è un formaggio prodotto  in provincia di Treviso. E “Il Riccio (Lombardy)”? Non è infrequente trovare in USA dei presunti prodotti italiani, o comunque dal nome italiano, l’italian sounding, che però sono sconosciuti qui da noi.
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Esistono anche negozi totalmente specializzati in formaggio ma, per un italiano, di difficile classificazione: si può entrare a far colazione o pranzare ma il tema principale sono i formaggi, che oltre ad essere venduti sono anche preparati nel laboratorio interno, diviso da una vetrata
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Qui hanno appena finito di preparare quella che sembra una specie di ricotta, il tutto visibile mentre si è seduti al tavolino a fare colazione: il cheesemaking come attrazione.
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E si possono acquistare libri sul formaggio, ma anche piccoli kit per il “fai da te”
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A proposito, vi ricordo che nel numero di Marzo di Le Scienze, ora in edicola, c’è un mio articolo sul “mascarpone fai da te”, per chi si volesse cimentare :-)
Gli americani non si limitano a importarli i formaggi, ma stanno anche imparando a farli: qui sotto vedete un “Oregonzola”, proveniente dall’Oregon
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Solitamente gli italiani snobbano questi ”innumerevoli tentativi di imitazione”, come per la famosa rivista di enigmistica. Io però non sottostimerei il fenomeno: con i microorganismi adatti (si comprano senza problemi), il latte adatto, le condizioni ottimali, e le opportune conoscenze non c’è nulla che impedisca di produrre dell’ottimo Gorgonzola in Oregon, o dell’eccellente Parmigiano in Cina. Nulla. Per i formaggi (e i salumi) potrà accadere quello che è successo con i vitigni “internazionali”, e non sarà certo un burocratico marchio DOP a impedirlo. Conosco le obiezioni: manca il “terroir”, il legame con il territorio, la cultura, le tradizioni. Ma perché, a chi compra parmesan invecchiato un anno prodotto nello stato di New York interessa il legame con il territorio e la tradizione? Comprano il prodotto, non le suggestioni romantiche. Dategliene uno buono, stagionato due anni ma prodotto in USA, e non avrà più motivo di comprare quello italiano. Succederà. L’unica incognita è su chi lo produrrà: una azienda italiana che impianta la produzione in USA di un buon “parmesan”  o l’analogo caseario di Starbucks? E’ chiaro che questo è solo un esempio: se non sarà il parmigiano potrà essere il prosciutto crudo o altro.
Certo, ci sarà sempre chi apprezzerà il Bettelmatt, e distinguerà l’acquisto anche in base alla malga di provenienza (io lo faccio), ma se la qualità di quelle che ora classifichiamo come “imitazioni” continuerà ad aumentare succederà forse quello che è già successo con altri prodotti “italiani di origine” ma diffusi capillarmente nel mondo non certo da italiani (vorrei ricordare il caffè espresso e il cappuccino  con il fenomeno di Starbucks, comunque uno lo giudichi, o la pizza con le innumerevoli catene in tutto il mondo. Nessuna italiana! Sta accadendo per l’olio extravergine di oliva. Vogliamo parlare dell’inesistenza sulla scena mondiale del pane italiano nelle sue molteplici incarnazioni? “Artigianale” è bello, ma fino ad un certo punto. Nel gelato, altro prodotto di cui dobbiamo andare orgogliosi, qualcosa si muove, soprattutto grazie a Grom, che però proprio per la sua struttura necessariamente semiindustriale, con semilavorati, è spesso criticato dai gastropuritani nostrani dell’artigianale a tutti i costi. Ci torneremo su)
Facciamo ora un salto nel tempio della gastronomia italiana a NY: Eataly, sulla quinta strada
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Qui trovo anche del Parmigiano Vacche Rosse
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Certo, sono 28$ alla libbra. Settimana scorsa ho acquistato due pezzi di Vacche Rosse al vicino supermercato Auchan a 23 euro al kg. Ma questa è New York, e Eataly fa soldi a palate.
E’ tempo di pranzare, e visto che sono qui mi siedo in uno degli innumerevoli ristorantini interni. Mi tengo leggero con un panino (con formaggio di capra) e una zuppa, entrambi buoni.
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L’acqua, del rubinetto, è gratuita, come ovunque in USA. Se provate a chiederla in un ristorante in Italia vi fanno sentire dei barboni, così come (spesso) se osate chiedere del vino al bicchiere.
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Il fenomeno che vi illustravo prima lo si vede bene da Eataly: il megastore non vende solo prodotti italiani importati dall’italia, ma anche buoni prodotti, come dire, di “stampo” italiano ma prodotti localmente dai migliori produttori. O pensate davvero che la mozzarella buona la possiamo fare solo in Italia? Che ci sia qualche cosa nell’aria italiana che renda impossibile replicare i nostri prodotti all’estero? Su, scendiamo dal pero…
Non stupisce quindi che nel banco delle carni si trovi della carne piemontese
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Solo che “piemontese” si riferisce alla razza di vacche, perché l’ottimo filetto proviene da un animale, di razza piemontese, allevato in un ranch di Miles City, nel Montana.

L'Arte Culinaria nel Giappone Tradizionale

L'atto di mangiare, in Giappone, non è un semplice gesto per nutrirsi bensì è parte intrinseca della cultura nipponica. Il modo di preparazione, di cottura e di consumo è un'arte dove l'estetica, la tradizione, la religione e la storia sono altrettanto importanti, se non di più che il cibo stesso. Ogni fase nella preparazione e presentazione di un piatto è come il movimento di una sinfonia, e un pasto giapponese riflette la più intima natura di questo popolo, il suo amore per una bellezza disciplinata, il suo rispetto per ogni forma d'espressione artistica.
Contrariamente ai costumi occidentali che tentano di mescolare i sapori, i piatti sono costituiti da differenti alimenti ognuno dei quali deve possedere ciascuno la propria individualità di gusto e di aspetto.
I consumi alimentari dei giapponesi hanno profonde radici nella loro storia, e nella natura della loro terra e del loro mare. Le isole giapponesi sono circondate da acque ricchissime di pesce, mentre solo una piccola parte delle terre è adatta alla coltivazione, di modo che - con un paio di eccezioni - il pesce e altri prodotti ittici giocano un ruolo primario nell'alimentazione quotidiana e, a Tokyo al mercato di Ameyoko vicino al parco di Ueno, al mercato centrale di Tsukiji, le bancarelle abbondano di sarde, di piccoli pesci sott'olio, di alghe, di molluschi ecc. La vendita all'incanto dei tonni alle prime ore dell'alba è uno spettacolo al quale ogni turista dovrebbe assistere.
Delle eccezioni suddette la più importante è il riso, pilastro dell'alimentazione giapponese fin dall'antichità, e anche oggi presente in tavola ad ogni pasto, cominciando dalla prima colazione.
Il Giappone non sarebbe il Giappone senza il gohan, che significa sia pasto che riso ed è presente dalla prima colazione alla cena.
Le porzioni sono sempre minuscole, preferendo moltiplicare così i sapori come se ogni pasto fosse un campionario da degustazione.
Qui, non si ricercano i prodotti esotici o fuori stagione, poiché ogni stagione apporta le proprie specialità.

La tradizione culinaria giapponese risale a tempi lontani

Tra il VI e il VII secolo della nostra era, il Giappone è stato largamente influenzato dalle sue strette relazioni con la Cina, quando si importavano il tè verde e i fagioli di soia. La cucina cinese, molto più complessa e più sofisticata, era influenzata dal buddhismo, una religione basata sulla valorizzazione e il rispetto qualsiasi forma di vita - la carne era bandita dall'alimentazione quotidiana in quanto colpiva la vita animale. Tutta questa filosofia ha segnato il menu tradizionale. Questa influenza ebbe fine a metà del IX secolo con la caduta della dinastia Tang. Poi giunse l'età d'oro del Giappone, chiamata età Heian, dal nome di Heian-Kyo, l'antica capitale del Giappone (l'attuale Kyoto).
Per 400 anni, la vita sociale e l'arte in generale furono al loro apogeo. Si elaborò un codice per il cerimoniale e, se la tavola era ancora frugale, la disposizione dei piatti e degli alimenti entrò a far parte della rivoluzione dell'arte e dell'estetismo visivo. Più tardi, l'epoca dei samurai introdusse l'eleganza e l'arte di mangiare divenne un'arte, una raffinatezza e una cerimonia.
I primi contatti con il mondo occidentale non furono indolori. Parimenti a quello cinese, il popolo nipponico considerava gli occidentali come dei barbari, e per far loro piacere, creò a metà del XVI secolo il tempura, traendo ispirazione da alcuni piatti fritti portoghesi e adottando questo principio con un'arte consumata e una leggerezza di tessitura che andavano ben oltre alla versione originale. Non è che alla fine del XIX secolo, dopo una lunga frequentazione del mondo in generale, che la cucina giapponese abbandò la dieta vegetariana.

La cerimonia del tè
Questa tradizione risale al XIII secolo, perpetuata dai monaci buddhisti Zen per raggiungere mentalmente e fisicamente la spiritualità. È nel XV secolo che si assiste alla cerimonia del tè in tutta la sua perfezione rituale, un capolavoro di raffinatezza alla corte imperiale. Il Maestro del tè governa ogni fase della cerimonia dalla scelta della grandezza della camera, al numero degli invitati, alla disposizione degli utensili, sino al servizio.
La teiera, il vassoio e la ciotola vengono puliti con un panno di seta chiamata fukusa. La ciotola viene quindi lavata con acqua bollente che viene presa dal tradizionale bollitore in ferro mantenuto in caldo sopra a della carbonella di legna. In seguito, con dei gesti solenni, si misura con estrema cura la polvere di tè verde nella ciotola con l'aiuto di un lungo cucchiaio da tè in bambù. Si versa quindi l'acqua, che deve essere la più pura, la più fresca e al giusto grado di temperatura senza che abbia bollito o sobbollito eccessivamente. Il tè viene poi sbattuto con un chasen, un frusta di bambù fatta a mano al fine di produrre una schiuma verde giada.
La tecnica richiede anni di esperienza, un gioco di polso grazioso ed elegante al tempo stesso. Infine si beve il tè a piccoli sorsi per apprezzarne ogni sfumatura dell'aroma. Il Giapponese dedica circa 40 minuti per una semplice cerimonia del tè, ma si devono calcolare diverse ore se la cerimonia è accompagnata dal tradizionale kaiseki, il pasto tradizionale servito con la stessa eleganza nella gestualità e altrettanto simbolismo.

Ricevere alla giapponese
Se desiderate organizzare una cena alla giapponese è bene sapere che il pasto, in Giappone, non è relegato alla funzione primaria di mangiare per nutrirsi, ma fa parte integrante dell'arte nella sua forma più pura.
Il cibo deve essere bello a guardarsi, non soltanto al momento in cui viene servito ma già prima di essere cotto: le fette devono essere regolari, le guarnizioni devono creare piacevoli effetti di colore, tutto deve sempre essere una carezza per l'occhio. Insomma, le presentazioni sono come dei quadri, ogni cibo ha il proprio posto su uno stesso vassoio o in piccoli recipienti (di vetro o ceramica per cuocere vivande al fuoco o a bagnomaria) separati. È un'arte, questa, che necessita di tempo quando non si ha il senso della poesia.
Dal lato utensili, ogni pasto viene consumato con delle bacchette e questa semplice novità apporterà al vostro ricevimento un tocco di gaiezza. I piatti sono molto diversi dai nostri, perché sono scelti in funzione non uno dell'altro, ma ciascuno di ciò che deve contenere; ogni cucina giapponese ne possiede una grande varietà, adatti ad ogni varietà di cibo. Il colore è la cosa più importante, e subito dopo viene la forma. Raramente i giapponesi usano piatti bianchi; perlopiù ne hanno con disegni di pesci, frutti e verdure, in una varietà di colori. Il principio di fondo è quello dell'armonia di colore e forma fra il piatto e il cibo che esso contiene.
Non disponendo di piccoli piatti tipicamente giapponesi, potete utilizzare delle tovagliette di bambù, dei ventagli, dei piccoli recipienti ecc. Ogni cibo ha il suo piatto, la sua coppetta. Bisogna saper moltiplicare i piccoli piatti.
Niente tovaglia ma una tavola nuda, depurata. E neppure tovaglioli. Prima di iniziare il festino, si servirà a ciascun invitato una oshibori (tovaglietta di spugna arrotolata) umida e calda; per facilitare il compito inumidire nell'acqua fredda, strizzare, arrotolare e disporre in un piatto rettangolare. Riscaldare le salviette al microonde, e servirle con delle pinze (quelle che si utilizzano per girare gli alimenti sul grill). A fine pasto, si offrirà a ciascun invitato una ciotolina di acqua calda profumata con una fetta di limone che serve anche a sgrassare le dita.
Questione pratica, non c'è da andare e venire dalla sala da pranzo alla cucina. Tutti i piatti sono sulla tavola, affinché gli invitati possano creare essi stessi le armonie che desiderano. La cucina si fa davanti agli invitati e si portano tutti i cibi da cucinare graziosamente presentati su un grande piatto. Si può, in alcuni casi, utilizzare degli scaldavivande per mantenere caldi il sakè, il tè verde, la zuppa che si versa in una ciotolina verso la fine del pasto per facilitare la digestione.
Settore bevande, del Sakè, questo "vino" di riso che si beve ben caldo in tazzine di porcellana senza anse.
Gli spaghetti si mangiano portando la ciotola vicino alla bocca. Si prendono allora con le bacchette un po' di spaghetti che si aspirano rumorosamente, segno di soddisfazione e di etichetta.
Bisogna sapere che il pasto giapponese non comporta alcun dessert, salvo che in rare occasioni. Si termina generalmente con un frutto di stagione: pera giapponese, kaki ecc.

Ospite a casa di una famiglia giapponese
La testimonianza di una serata alla scoperta di un'antica e raffinatissima cultura,
dove equilibrio interiore, silenzio e armonia sono le parole d'ordine 

Stava scendendo la sera quando giunsi dinnanzi alla casa. Una calma indefinibile mi pervase. Una brezza calda faceva muovere dolcemente le fronde dei giovani aceri e a questo giorno restava abbastanza luce per distinguervi un magnifico giardino.
Alcune pallide ninfee nel cuore di foglie rotonde su uno stagno, la sabbia appena rastrellata formava degli arabeschi. Un sasso insolito mi fece inciampare. Il suono della mia voce più che la mia imprecazione aveva attirato la Signora Yukuwa sulla soglia di casa.
Come avrei desiderato, in quel momento, avere nel mio vocabolario le parole per scusarmi per avere violato il silenzio del giardino zen. È con un sorriso che rassicurai i miei ospiti in kimono. Essi erano là, autentici, legati intimamente alla vita. Il marito si inchinò per una leggera riverenza altera e fiera. Era un figlio di antiche dinastie samurai e io mi chiesi se tutti i giapponesi fossero simili a lui: un'apparenza occidentale su di un'anima profondamente orientale. Appresi che lavorava in fabbrica là dove il giorno penetra appena ma dove dimorano, vividi, i simboli del Sol Levante e la luce di un tempo.
Una volta oltrepassata la soglia, scambiai le mie scarpe con delle pantofole di feltro, questo piacevole costume che vuole che alcuna sporcizia attaccata alle suole penetri all'interno e che nessun tacco vada a intaccare il tatami. In muffole bianche, la signora Yukawa attraversò la stanza. Io la seguii con gli occhi e il mio sguardo si fermò, vicino a un armadio a muro, sul tokonoma (1) dove troneggiava un buddha attorniato da due mazzi di fiori identici.
Quel mattino la signora Yukawa aveva rinnovato con maggior cura del solito i sei fiori a stelo lungo la cui presenza onora gli antenati.
Hideki, che aveva seguito il mio sguardo, mi spiegò i segreti dell'ikebana, un'arte minore che sviluppa la sensibilità nelle ore di riposo. Ikebana significa "fiori vivi", poiché questi fiori hanno il compito non di abbellire la casa bensì di darle uno stile. Una composizione non si ripete due volte e in ogni composizione un ramo simbolico è sempre rivolto verso il cielo. Comporre un ikebana, mi disse, non è un'occupazione esclusivamente femminile, ma anche un passatempo per gli uomini, considerati in Giappone capaci di cogliere anche il linguaggio dei fiori.
Durante questo periodo la signora Yukawa andava e veniva con estrema leggerezza, sfiorando gli oggetti più che toccarli. Posava con una tale grazia i cibi sul tavolo di lacca nera che la si sarebbe detta un'artista all'opera. Che rapimento per gli occhi e quale delizia per il palato! La cena sembrava avere per tema la virilità e il coraggio.
L'insieme dei cibi portati comprendeva dei gamberetti rosa messi vicini a rappresentare un elmo da samurai; su un vassoio di bambù, delle rondelle di cetriolo erano state tagliate in modo da simboleggiare la cotta di maglia di un avventuriero; pezzi croccanti di zenzero avvolti in fogli di nori(alghe) a ricordare delle lance e, su un mare di riso, una sarda seccata e salata faceva pensare a una barca.
Ikebana, l'arte di comporre i fiori, nel tokonoma

Se un tempo i nobili dovevano vuotare le loro ciotole fino a renderle pulite, tanto da far scivolare nelle maniche del loro kimono i semi dei frutti o le lische dei pesci, ancora oggi un piatto contenente degli rimasugli è per i giapponesi uno spettacolo sgraziato e offensivo. Cosciente di tutto questo, ma senza sforzo, devo ammetterlo, alla fine del gohan (pasto) la mia ciotola era vuota. Deposi le mie bacchette e mi ritornò alla mente una frase letta una volta: "Questi stranieri pallidi, dal naso lungo, ingoiano grossi pezzi di carne e queste maniere ci fanno orrore… ma noi non sappiamo se hanno un'etichetta; mangiano con le dita e non come noi con delle bacchette".
Indovinai, più che sentirlo realmente, il soffio d'aria che spostava al passaggio il largo kimono ornato di fiori bianchi della signora Yukawa. Suo marito versò dell'acqua bollente in una tazza, mescolò il tè, portò la tazza alla fronte, l'abbassò e ne bevve qualche sorso. Molto maldestramente l'imitai.
"Lentamente, molto lentamente - insistette - così coglierete il piacere del gesto prima ancora di apprezzare il vostro tè. Il tè ha una lunga storia, e fu introdotto in Giappone verso l'anno 800 sotto forma di una polvere che serviva a curare i malati o a confezionare delle bevande per i preti e i ricchi.
Noi beviamo - disse - il shincha; è una varietà di ocha (tè verde) molto dolce, ma per la cerimonia del tè utilizziamo delle foglie raccolte da piante speciali e molto antiche. Noi siamo - mi disse ridendo - altrettanto maniaci in fatto di tè quanto i più tradizionalisti dei lord inglesi".
Approfittai del suo buon umore per risistemare le mie gambe incrociate, in quanto sentivo uno spiacevole formicolio. Feci degli sforzi per trovare la posizione migliore, poiché non ci sono sedie in una sala da pranzo giapponese.
"Il tè - proseguì il mio ospite - è una vera cerimonia. È il cha-no-yu, una storia risalente a Senno Rikyu, un monaco zen del XVIII secolo che scrisse un codice del tè, ne stabilì la regola severa e complicata". Ammirai la sottigliezza delle parole e compresi il messaggio. Per rispetto e anche allo scopo di provare che un Occidentale ne è capace, bevvi in silenzio e scoprii un mezzo straordinario di comunicazione.
Quando sua moglie fece ritorno, notai il suo modo sottomesso, rivelatore della sua educazione e del gusto dell'abitudine. Era ancora un omaggio spontaneo a suo marito, alla sua casa e all'invitato che la casa accoglie.
Con rimpianto presi congedo dai miei ospiti e ritornai in albergo.
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(1)Tokonoma : nicchia grande circa un tatami (1,80 x 0,90), alta fino al soffitto, ricavata nella parete rivolta nella direzione propizia, di una tipica stanza giapponese che funge da sala. Sulla parete di fondo viene appeso un rotolo di carta con un disegno o un dipinto o una calligrafia. Nel centro viene posto un vaso di fiori o un oggetto ornamentale. Il pavimento è leggermente sopraelevato rispetto al livello del tatami.

Fonte: http://www.tuttocina.it/fdo/artcul.htm

Sushi

Il sushi è la pietanza giapponese più famosa nel mondo, oltre che uno dei piatti più popolari tra i giapponesi stessi, che sono soliti gustarlo in speciali occasioni.durante il periodo di Edo, il termine “sushi „ era riferito ai pesci marinati conservati sott'aceto. Al giorno d'oggi il sushi può essere definito come piatto che contiene riso che è stato preparato con un particolare tipo di aceto, l'aceto da sushi appunto. Ci sono molti tipi differenti di sushi. Alcuni tra i più popolari sono:

sushi giapponese, preparazione sushi tonno pesce crudo giapponese






















NIGIRI- polpettine di riso ricoperte di pesce, uova etc. Ci sono infinite varietà di nigiri-sushi, alcune tra le più comuni sono fatte col tonno, col salmone, con i gamberi, con i calamari col polpo e con le uova fritte. Sono gli unici a poter essere chiamati strettamente sushi, parola che talvolta viene utilizzata per descrivere l'intera gamma della cucina tradizionale giapponese monoporzione.

gunkan sushi uova di pesce crudo ristorante sushi bar take away tokyo cibo






















GUNKAN- Coppette fatte di riso da sushi e di alga secca riempite di frutti di mare, uova ecc. Ci sono molte varietà differenti di gunkanzushi, alcuni tra i tipi più diffusi sono quelli farciti con ricci di mare e vari generi di uova di pesce. Se escludiamo le più pregiate vvarietà di tonno toro per la preparazione dei nigiri, alcuni di questi sushi raggiungono cifre molto elevate.

norimaki sushi tradizionale originale giapponese tradizione culinaria asiatica di pesce crudo






















NORIMAKI- riso da sushi con pesce, verdure etc. arrotolato in foglie di alga nori secca. Ci sono moltissime varietà di involtini, le quali si differenziano per ingredienti e spessore. Gli involtini preparati col riso all'esterno sono molto popolari fuori dal Giappone, ma difficili da trovare in Giappone. Sono considerati come una pausa di sapore tra un nigiri sushi ed un'altro.

temaki, sushi coni cono pesce crudo giapponese ristorante take away di pesce del giappone






















TEMAKI- I temakizushi sono coni fatti di alga nori e riempiti di riso per sushi, pesce e verdure.Conosciuti globalmente come sushi-coni, sono economici e di solito realizzati con residui di tagli di sushi più pregiati o di sashimi. Nonstante ciò se volete riepire lo stomaco senza spendere, i temaki son un'ottima soluzione il cui sapore si discosta poco ,per i palati non allenati. da quello del sushi.

oshizushi, sushi pressato giapponese, cibo tradizionale asiatico cucina giapponese tipica sushi cruderia






















OSHIZUSHI- L'Oshizushi è sushi pressato, in cui le fette di pesce vengono schiacciate sul riso contenuto in un recipiente di legno. Difficilmente si trova in occidente o nei ristoranti giapponesi, visto che è considerato un piatto della cucina povera e artigianale del giappone.

 
inari sushi, piatto economico giapponese tofu riso giappone sushi epsce crudo






















NARI- il narizushi è un tipo di sushi semplice ed economico, nel quale il riso per sushi viene utilizzato per riempire dei sacchettini fatti di tofu fritto. Può essere insaporito con svariate salse e talvolta gustato leggermente dolce.

chirashi sushi insalata di pesce giapponese, cucina di pesce frescoc rudo tonno anguilla prelibato ricetta originale del giappone sushi






















CHIRASHI- il Chirashizushi è un piatto in cui pesce, funghi e verdure varie sono sparse su un'abbondante porzione di riso per sushi. Il sapore generale è simile a quello del sushi tradizionale ma tipicamente viene gustato in casa e non al ristorante.

 

Agnello d'Alpago


A metà strada tra Cortina d’Ampezzo e Venezia, a pochi chilometri da Belluno, la conca dell’Alpago è da sempre un luogo ideale per la pastorizia, attività principale nei comuni di Chies, Pieve, Tambre, Farra e Puos fino al secondo dopoguerra. E l’Alpago ha dato il nome a una razza ovina autoctona di taglia medio-piccola, dalla curiosa maculatura scura sulla testa e sulla parte inferiore degli arti, dal mantello folto, fine e ondulato che la ricopre totalmente, dal ginocchio e dal garretto fino alla regione frontale. Senza corna, con orecchie corte e profilo leggermente montonino, è una razza rustica, adatta all’ambiente alpino, ma altrettanto idonea all’allevamento in stalla. Come la maggior parte delle razze autoctone, si è drasticamente ridotta nel secolo scorso: oggi sono presenti in zona circa 2000 capi, una leggera ripresa rispetto ai primi anni Novanta, quando la Comunità Europea la inserì tra le specie locali minacciate di estinzione. Considerata ovino a triplice attitudine, cioè valida sia per la carne sia per la produzione di latte e di lana, oggi l’alpagota è allevata quasi esclusivamente per l’ottima carne: saporita, tenera e compatta allo stesso tempo, può reggere il confronto con i più celebri pre-salé d’oltralpe. Gli agnelli migliori sono quelli macellati a 55, 65 giorni dalla nascita e con un peso da vivi di 18, 25 chilogrammi.

L’agnello d’Alpago ha una carne tenerissima, che si sfalda in bocca, un giusto equilibrio di grasso-magro, sensazioni che non sanno mai di selvatico, al limite di erbe aromatiche.
È perfetto anche in abbinamento ai piatti poveri della tradizione locale come lapatora, zuppa di mais e legumi, oppure la bagozia, una sorta di polenta fatta con patate, mais, legumi e anche salame e pancetta.


Il Presidio
Un disciplinare, sottoscritto dagli allevatori dell’Alpago riuniti nell’associazione Fardjma, Presidio Slow Food, si propone di tracciare alcune linee guida fondamentali per allevare l’agnello in modo da ottenere carni di alta qualità. Come sempre, l’alimentazione naturale è indispensabile per ottenere carni eccellenti: allevamento allo stato brado, con alimentazione a base di foraggio di prato, oppure semibrado con l’integrazione di fieno prodotto in loco e sfarinati di cereali. L’uso dell’ ovile è permesso solo a condizione di garantire il benessere degli animali e un accrescimento sano ed equilibrato. Il Presidio ha registrato un marchio proprio, “Agnello d’Alpago”, e garantisce la completa tracciabilità del prodotto: l’etichetta apposta sulle carni riporta il marchio, il nome e l’indirizzo dell’allevatore e i codici del macello e dell’allevamento. Recentemente la Comunità Montana dell’Alpago ha avviato anche una produzione di filati di ottima qualità per la produzione di capi di abbigliamento e di oggetti in feltro (cappelli, pantofole, borse).


Area di produzione
Chies d’Alpago, Farra d’Alpago, Pieve d’Alpago, Puos d’Alpago, Tambre (provincia di Belluno).


Stagionalità
La carne di agnello può essere reperita durante l’anno a seconda dei cicli riproduttivi della razza e in particolare, tra dicembre e aprile.
Fonte: 

http://www.presidislowfood.it/ita/dettaglio.lasso?cod=9

Le Farine Naturalmente Prive di Glutine

Esistono farine naturalmente senza glutine, in quanto derivate da ingredienti che non contengono questa proteina. Ovviamente ci potrebbero essere problemi di contaminazione nelle fasi di preparazione della farina ed è perciò meglio informarsi sulle loro condizioni di produzione, imballaggio ecc.


Farina di riso: si ottiene dalla macinazione del riso, privato delle impurità. Ha un sapore molto delicato e si conserva a lungo. Si può trovare anche integrale, che ha un sapore più intenso, una consistenza più granulosa ed un alto valore nutritivo. Dato che nella crusca sono presenti degli olii, in generale la farina integrale si conserva meno a lungo di quella bianca e tende ad assumere col tempo un sapore più intenso.


Crema di riso: si ottiene con una macinatura molto fine del riso. Si trova facilmente, per la verità variamente arricchita di vitamine, ma comunque sempre senza glutine, come alimento per lo svezzamento del lattante. In genere si tratta di crema di riso precotta, che quindi può essere usata con maggiore rapidità ed essere meglio digerita dal bambino. Nei negozi di cibi naturali si trovano anche la crema di riso e la crema di riso integrale (derivata dalla macinazione del riso non del tutto privato della crusca), non precotte e non arricchite per la prima infanzia. Le ricette che ne prevedono l'uso di solito si riferiscono alla crema di riso non precotta, che pesa un po' di più di quella per l'infanzia. Bisogna tenerne conto per le dosi consigliate.
Semolino di riso: deriva da una macinazione più grossolana del riso. Può sostituire il semolino di grano in molti piatti, dal semolino al latte, agli gnocchi alla romana, alla "frittura dolce" piemontese. Si trova nei negozi di alimenti naturali.


Farina di riso "glutinoso": nonostante il nome, può essere tranquillamente usata dai celiaci perché si tratta della farina derivata dalla macinazione di un particolare tipo di riso, particolarmente ricco di amido e quindi molto "colloso". E' con questa farina che per secoli i cinesi hanno preparato i loro spaghetti di riso. Ed è nei negozi e nei supermercati di prodotti alimentari "stranieri", da poco nati anche da noi, che si può trovare questa farina. Se vuoi vedere la foto di un imballo e come si scrive in cinese clicca qui


Farina di mais bramata: deriva dalla macinazione del mais e viene comunemente usata per la polenta. Si trova anche precotta, il che abbrevia i tempi di preparazione.


Farina di mais fioretto: è un prodotto semoloso più fine della farina bramata.


Farina di mais fumetto: è una farina sottilissima, che viene usata di solito per la pasticceria.


Farina di mais integrale: come la farina integrale di grano o di riso, contiene una certa percentuale di crusca. Puòessere mescolata, in piccole quantità, alla farina di mais bramata o fioretto per la preparazione di polente.


Farina di mais bianca: è tradizionale del Veneto, dove si usa per la polenta bianca. Può essere impiegata anche per preparare dolci e pane.


Amido di mais (o maizena): viene usato di solito per addensare salse e sughi, nei budini, per rendere più leggera la pasta di certi dolci, e così via. Nella cucina senza glutine puòessere impiegato, mescolato con altre farine, come sostituto della farina di grano. La maizena si trova comunemente in negozi e supermercati e si conserva a lungo.


Fecola di patate: viene usata comunemente per legare salse, sughi, budini, ecc. Nella cucina senza glutine puòessere usata, mescolata con altre farine, come sostituto della farina di grano, con particolari risultati di leggerezza e buona conservazione del prodotto. La fecola si trova comunemente in negozi e supermercati. Si conserva molto bene e a lungo.


Tapioca (detta anche farina di manioca): è un amido, come la fecola di patate o la maizena, ottenuto dai tuberi di una pianta chiamata manioca. Dà una particolare consistenza "morbida" ai prodotti da forno per cui la si usa. Una volta veniva usata più spesso, nei dolci o nelle minestre, mentre oggi la si trova quasi soltanto come crema precotta, mescolata con crema di mais o di mais e riso, tra gli alimenti della prima infanzia. E' possibile trovarla nei negozi di alimenti naturali, ma si presenta per lo più in forma di fiocchi, di granuli piuttosto grossi. Per ridurla a farina, ed usarla mescolata ad altre farine, per esempio per preparare vari tipi di pane e di focaccia, si può cercare di ridurla il più fine possibile, frullandola nel frullatore o passandola nel mixer. Poiché viene impiegata abitualmente in alcune cucine africane e asiatiche, di recente la farina di tapioca, leggerissima, quasi impalpabile, è comparsa nei negozi e supermercati di prodotti alimentari "stranieri".


Farina di soia: èderivata dalla macinazione dei semi di soia. Ha un elevato contenuto di proteine (èquindi molto nutriente, ma anche un po' "pesante"), una struttura oleosa e un accentuato sapore di nocciole. Da' ottimi risultati, in combinazione con altre farine senza glutine, soprattutto nei dolci, alla cui consistenza dà maggiore morbidezza e "umidità" (per lo più il difetto dei prodotti senza glutine è che restano un po' sabbiosi). Non ci si deve impressionare per il profumo, che nella farina cruda è abbastanza sgradevole, ma che cambia completamente con la cottura. Rispetto alle altre farine, che si conservano bene anche per periodi piuttosto lunghi, paragonabili a quelli della farina di grano, la farina di soia ha invece una durata limitata, una volta aperta. E' consigliabile surgelarla e prenderne solo la quantità di cui si ha bisogno di volta in volta. Si trova nei negozi di alimenti naturali.



Farina di grano saraceno: nonostante il nome, non ha nulla a che fare con il grano. Deriva dalla macinazione dei semi di una pianta che non è neppure una graminacea ma una poligonacee (Polygonun Fagopyrum L), con stelo erbaceo ramificato, foglioline verdi ed inforecenza rosa. Viene chiamata grano saraceno perchè ha poteri nurtizionali simili al grano e perché pare sia satata intodotta nelle nostre zione dai turchi. La farina di grano saraceno è priva di glutine , in generale è più povera di proteine, ma contiene maggiori quantità di amido. .Di solito questa farina, piuttosto scura, viene usata insieme alla farina di grano per preparare pane, gallette, pasta (per es. i pizzoccheri della Valtellina), che sono naturalmente vietati per il celiaco in quanto contengono appunto anche farina di grano. Oltre che nella polenta "taragna", mescolata alla farina di mais, la farina di grano saraceno può essere usata insieme ad altre farine senza glutine, per torte rustiche, pane, a cui dà un sapore, una consistenza e un aspetto simile a quello del comune pane integrale. La farina di grano saraceno si trova nei negozi di cibi naturali.


Farina di castagne: deriva dalla macinazione di castagne secche. Viene usata per la preparazione di dolci, frittelle, castagnaccio.


Farina di ceci: è una farina di legumi tipica della tradizione regionale italiana. Il suo impiego più diffuso ènella farinata.


Farina di mandorle, di noci, di nocciole, di arachidi: la farina si ottiene facilmente in casa, macinando finemente (con l'aiuto di un mixer) mandorle (pelate o no, dipende dal tipo di farina che si vuole ottenere: quella derivata dalle mandorle non pelate è più grezza e un po' meno dolce), nocciole (pelate o no, come per le mandorle), noci, arachidi. Sono ingredienti ad alto valore nutritivo, e il loro impiego nella cucina senza glutine, soprattutto nei dolci, dà risultati ottimi, molto gradevoli.

Amidi e Fecola di Patate: Differenze

Nonostante sia piuttosto palese la destinaizone d’uso di questi ingredienti, vediamo nello specifico cosa li distingue e perchè preferirne uno rispetto ad un altro.
Innanzitutto ciò che li accomuna è
  • Precipitano tutti con percentuali di alcool superiori al 10%(si separano dal liquido in cui vengono aggiunti)
  • Sono intolleranti allo iodio(si colorano di blu)
  • Più calorici rispetto ad altri addensanti(perchè se ne usa tendezialmente di più e perchè lo sono di più rispetto a quelli analoghi come agar-agar, guar, xhantano ecc. ecc.)
  • Insolubili a freddo
  • Solubili una volta cotti
Mentre le differenze intrinseche che li distinguono sono legate
  • Alla temperatura di gelatinizzazione
  • Al prezzo
  • Alla granulometria
  • Al rapporto amilosio / amilopectina
In particolare, quest’ultimo, è responsabile della struttura finale: una maggior presenza di amilosio darà alla struttura / consistenza spatolabile e morbida, mentre una maggior percentuale di amilopectina darà una struttura salda, simile ad un budino. Infatti se viene usato l’amido di mais (22% di amilosio) nella crema pasticcera si otterrà un prodotto molto morbido, spatolabile e poco legato; se utilizzo invece quello di riso (16% di amilosio), la crema sarà più salda.
Allo stesso tempo la retrogradazione* del amilosio e dell’amilopectina sono diverse, ad esempio l’amilopectina è più veloce e un’eventuale riscaldamento riporterà l’amilopectina nello stato di gel. Per l’amilosio ciò non è invece possibile, a meno che non si raggiungano i 170°C.
Ci sono poi amidi nativi e amidi modificati, quelli nativi sono estratti semplicemente dalla fonte di partenza, senza alcuna modifica della sua struttura (quelli più comuni), mentre quelli modificati sono amidi che vengono, come dice il nome, modificati. La modificazione implica un processo chimico o enzimatico con il fine di conferire allo stesso determinate caratteristiche tecnologiche°, ad esempio l’amido acetato è uno di essi è la trasformazione subita lo rende un coadiuvante per prevenire o impedire la retrogradazione degli impasti.
Un altro elemento importante che è opportuno tenere in considerazione nella scelta dell’addensante più appropriato, è il contenuto di amilosio che, rispetto alla amilopectina, ha un indice glicemico più basso.
Per quando riguarda la percentuale d’uso, oscilla tra l’8 e il 12% in relazione ai liquidi, se si vogliono ottenere budini. Mentre al 10% (fino al 100%), in relazione alla farina, nei prodotti da forno dolci (pan di Spagna, frolla) per aumentare lasofficità.
  • A questo indirizzo è possibile scaricarsi un files (.pdf) con le caratteristiche degli stessi.
°Le caratteristiche tecnologiche sono le caratteristiche esclusivamente tecniche che un ingrediente conferisce. Ovvero l’ingrediente in questione viene utilizzato esclusivamente per migliorare un aspetto che potrebbe essere la consistenza, la conservazione, il colore, la tollerenza alla luce ecc. ecc. L’ingrediente non viene invece utilizzato con altri fine di migliorare ad esempio il gusto.
*Retrogradazione è un fenomeno legato dell’amido è ed alla base della formazione del pane raffermo, può essere considerato l’inverso della gelatinizzazione.
La retrogradazione consiste nella tendenza da parte dell’amido a riassumere la struttura originaria. Sebbene l’amido in realtà non riesca mai a tornare in una configurazione simile a quella iniziale, infatti in realtà si forma una struttura intermedia rigida dovuta all’avvicinamento delle catene di amilosio e alla crescita di cristalli di amilopectina. La quantità di amido retrogradato è quindi direttamente proporzionale al contenuto di amilosio.

Le Rape Rosse


Un prodotto sano ed antico:

Le rape rosse vengono anche chiamate barbe rosse, carote rosse o barbabietole rosse a seconda del dialetto regionale. Questa ampia varietà di nomi, sono la dimostrazione tangibile che già dall’antichità sono state coltivate ed apprezzate in tutte le regioni d’Italia.
Esse appartengono alla stessa famiglia delle barbabietole da zucchero. Sono ricche di fibre ed hanno un sapore leggermente dolciastro.



Contengono molte preziose sostanze che facilitano la digestione, il funzionamento del fegato e l’abbassamento del colesterolo. In presenza di irregolarità intestinali, emorroidi e meteorismo, la rapa rossa è l’alimento rinfrescante per eccellenza. Come tutte le radici, è ben provvista di sali minerali, in particolare magnesio, fosforo, calcio, potassio e ferro, che si rivelano molto utili sia per gli amanti dello sport sia per chi soffre di anemia.
Le rape rosse sono un vero concentrato di sostanze utili per la salute, tanto che nel 1983 alcuni ricercatori greci pubblicarono un articolo sulla rivista “International Journal of Cancer” sugli effetti favorevoli di una dieta che comprendeva la barbabietola rossa nella prevenzione del cancro del colon e del retto. Non sono stati comunque i primi a citarla, dato che già dal 1950 molti studiosi, soprattutto austriaci e tedeschi, hanno messo a punto estratti concentrati di molti ortaggi, il cui ingrediente principale era la barbabietola rossa, che venivano usati per curare varie patologie, come artriti, artrosi, osteoporosi, dermatiti.
Spesso è consigliata agli anemici e questo è dovuto alla presenza nella sua polpa di particolari sostanze chiamate antocianosidi (responsabili del colore) che hanno la capacità di aumentare la vitalità dei globuli rossi.
La polpa trova impiego anche in cosmesi: ridotta in purea è una maschera di bellezza adatta anche a ridurre gli arrossamenti della pelle. I pigmenti rossi della barbabietola macchiano le mani con facilità. Per eliminare le macchie è sufficiente il succo di mezzo limone.

Le origini della barbabietola rossa o rapa rossa (beta vulgaris) si possono individuare nel neolitico, reperti archeologici dimostrano la presenza della rapa rossa già nel 2000 a.C.

Le proprietà officinali di questo ortaggio erano ben note ai romani, i quali la impiegavano come calmante della febbre. esso contiene infatti nelle sue foglie e nella radice molte sostanze medicinali attive, minerali ed oligominerali, indicate in caso di anemia, carenza di minerali o alterazioni del sistema nervoso.

Il suo ricco contenuto di tannini ed altri elementi è particolarmente efficace sugli organi interni come intestino, pancreas, fegato e bile, permettendo il buon funzionamento di questi organi con l'eliminazione di eventuali grassi in eccesso.

Ceci, Principali Caratteristiche.

Classe: Dicotyledonae
Ordine: Leguminosae
Famiglia: Papilionaceae
Tribù: Vicieae
Specie: Cicer arietinum L.
Francese: Pois chiche; Inglese: Chick pea, gram; Spagnolo: Garbanzo; Tedesco: Kichererbse.

Origine e diffusione

Il Cece non esiste allo stato selvatico, ma solo coltivato. La regione di origine è l’Asia occidentale da cui si è diffuso in India, in Africa e in Europa in tempi molto remoti: era conosciuto dagli antichi Egizi, Ebrei e Greci.
Il cece è la terza leguminose da granella per importanza mondiale, dopo il fagiolo e il pisello. La superficie coltivata nel mondo è di circa 11 milioni di ettari. La maggior parte del prodotto è consumata localmente.
I semi secchi del cece sono un ottimo alimento per l’uomo, ricco di proteine (15-25%) di qualità alimentare tra le migliori entro le leguminose da granella.
In Italia la superficie a cece è scesa a meno di 3.500 ettari, quasi tutti localizzati nelle regioni meridionali e insulari.
Ceci secchi - Cicer arietinum L. Ceci secchi - Cicer arietinum L. (foto www.agraria.org)

Caratteri botanici

Il cece è una pianta annuale, con radice ramificata, profonda (fino a 1,20 m), il che la rende assai aridoresistente; gli steli sono ramificati, eretti o semiprostrati, lunghi da 0,40 a 0,60 m; le foglie sono composte, imparipennate, con 6-7 paia di foglioline ellittiche denticolate sui bordi, i fiori sono generalmente bianchi, per lo più solitari, dopo la fecondazione del fiore, che è autogamia, si forma un legume ovato oblungo, contenente 1 o talora 2 semi. Tutta la pianta è verde grigiastra e pubescente per la presenza su tutti gli organi di fitti peli ghiandolari che secernono una soluzione acida per presenza di acido malico e ossalico.
I semi sono rotondeggianti e lisci in certi tipi, rugosi, angolosi e rostrati (“a testa di ariete”) in altri, il colore più comune è il giallo, ma ci sono ceci con tegumento seminale rosso o marrone. Le dimensioni dei semi sono determinanti del pregio commerciale dei ceci: esistono varietà a seme grosso e varietà a seme piccolo; certi mercati (Italia, Spagna e Nord-Africa, dove questo legume è consumato intero) accettano solo ceci a seme grosso, apprezzandoli tanto più quanto più grosso è il seme, su altri mercati (Medio Oriente, Iran, India) prevalgono i ceci a semi piccoli, che trovano impiego in preparazioni alimentari che ne prevedono la sfarinatura.
Cece - Cicer arietinum L. Cece - Cicer arietinum L. (foto www.cac-biodiversity.org)

Esigenze ambientali

Il cece è una pianta microterma che germina con sufficiente prontezza con temperature di circa 10 °C. la germinazione è ipogea e le plantule non hanno particolari difficoltà ad emergere dal terreno. Resiste al freddo meno della fava tant’è che in tutto il bacino del mediterraneo il cece si semina a fine inverno e si raccoglie in luglio-agosto, mentre solo nei Paesi a inverno molto mite (India, Egitto, Messico) l’epoca di semina è l’autunno.
Il cece è una pianta a sviluppo indeterminato, che incomincia a fiorire a partire dai nodi bassi e la cui fioritura prosegue per alcune settimane. L’allegagione in genere è piuttosto bassa: per cause varie (alta temperatura o alta umidità o attacchi crittogamici) è normale che quote assai forti di fiori abortiscano.
Il cece è una pianta assai rustica, adatta al clima caldo-arido, perché resiste assai bene alla siccità mentre non tollera l’umidità eccessiva.
Per quanto riguarda il terreno il cece rifugge da quelli molto fertili, dove allega male, e soprattutto da quelli argillosi e di cattiva struttura, quindi asfittici e soggetti a ristagni d’acqua. I terreni più adatti sono quelli di medio impasto o leggeri, purché profondi, dove il cece può manifestare appieno la sua caratteristica resistenza alla siccità. Il cece ha un basso livello di tolleranza alla salinità del terreno. Nei terreni molto ricchi di calcare i ceci risultano di difficile cottura.

Varietà

Al momento attuale il panorama varietale del cece non è molto ricco, in quanto nella generalità dei casi sono coltivate le popolazioni locali. Ciò perché il miglioramento genetico di questa pianta è stato intrapreso da poco tempo.
I principali obiettivi che la selezione persegue sono: la resistenza alle principali avversità e segnatamente alla rabbia; resistenza al freddo, per estendere la semina autunnale; modifica del portamento della pianta dal normale tipo semiprostrato verso un tipo alto, eretto, a fioritura concentrata o con i primi baccelli ben distanziati da terra, in modo da rendere possibile la raccolta meccanica.

Tecnica colturale

Negli ambienti semi-aridi ai quali il cece si dimostra adatto esso si avvicenda con il cereale autunnale (frumento, orzo) del quale costituisce una buona precessione, anche se il suo potere miglioratore non è pari a quello della fava o del pisello.
Il terreno destinato al cece va lavorato profondamente, in modo da consentire il massimo approfondimento radicale, e affinato durante l’autunno e l’inverno.
Il cece per lo più si semina in fine inverno, appena passati i freddi più forti (marzo), a file distanti 0,35-0,40 m, mirando a realizzare un popolamento di 25-30 piante a metro quadrato; secondo la grossezza del seme sono necessarie quantità di seme diverse; con i ceci del tipo Tabuli (gli unici finora proponibili in Italia: peso di 1000 semi pari a 350-500 g), si adoperano intorno a 100-180 Kg/ha di seme.
La recente disponibilità di cultivar selezionate per resistenza al freddo rende oggi possibile, quanto meno nelle regioni centro-meridionali, di anticipare la semina all’autunno (ottobre-novembre), con notevoli vantaggi in termini di resa.
La semina può farsi con le seminatrici da frumento o con seminatrici di precisione. La profondità di semina consigliabile è sui 50-70 mm. Il seme va conciato accuratamente per prevenire attacchi di crittogame sulle plantule.
La concimazione del cece deve essere mirata soprattutto a non far mancare alla coltura il fosforo (e il potassio se carente); per l’azoto la nodulazione, se regolare come quasi sempre accade, assicura il soddisfacimento del fabbisogno.
Poiché il prelevamento di fosforo è molto limitato, anche la relativa concimazione può essere limitata a 40-60 Kg/ha di P2O5.
In terreni estremamente magri o poco favorevoli all’azotofissazione, una concimazione azotata con 20-30 Kg/ha di azoto può risultare vantaggiosa.
Il diserbo del cece può essere fatto con successo in pre-emergenza utilizzando Pendimetalin + Imazetapir.
Di norma il cece non richiede cure colturali particolari, solo in certi casi è usanza praticare una leggera rincalzatura; talora è consigliabile qualche trattamento contro la rabbia o contro gli insetti; in ambienti molto aridi la coltivazione del cece è fatta con l’ausilio dell’irrigazione.

Raccolta e utilizzazione

La raccolta del cece tradizionalmente si fa estirpando le piante a mano e lasciandole completare l’essiccazione in campo in mannelli; la sgranatura può poi essere fatta a mano o con sgranatrice o con mietitrebbiatrice munita di “pick-up” al posto dell’organo di taglio. Anche la mietitrebbiatura diretta può essere fatta con un certo successo, specialmente se il terreno è perfettamente livellato e se le piante hanno portamento eretto.
Una buona coltura di cece può produrre oltre 3 t/ha di granella, ma in genere le rese sono molto più basse, per le scarse cure che al cece si dedicano.
Con la semina autunnale e una buona tecnica colturale sono oggi realizzabili rese dell’ordine di 4 t/ha, quanto meno negli ambienti più favorevoli a questa coltura.
La paglia di cece non è apprezzata come foraggio così come lo è quella di altre leguminose.
I ceci riposti in magazzino vanno sottoposti a trattamenti per evitare i danni dal tonchio.

Avversità e parassiti

La malattia crittogamica più grave che colpisce il cece è la rabbia o antracnosi (Ascochyta rabiei), che produce il disseccamento della parte aerea e che può provocare la distruzione della coltivazione. Le maggiori speranze risiedono nella costituzione di varietà resistenti; qualche risultato si ottiene con la lotta diretta basata sulla concia del seme e su una irrorazione all’inizio della formazione dei baccelli. Altri funghi che possono provocare danni sono la ruggine del cece (Uromyces cicer-arietini), l’avvizzimento, causato da Rhizoctonia spp., Fusarium spp. Verticillum spp.
I più seri attacchi di animali sono portati dalla Heliotis (sin. Helicoverga) armigera sui baccelli, dalle larve di Liriomyza cicerina minatrice delle foglie, dal Callosobruchus chinensis che attacca i semi in magazzino.
Il cece può essere infestato, anche se con minor gravità della fava, dall’orobanche.
a cura di Francesco Sodi

FONTE: http://www.agraria.org/coltivazionierbacee/cece.htm